Lobiettivo iniziale dellescursione era, infatti, quello di raggiungere il Lac Gelé a 2600 metri di quota, partendo dalla località di Veulla di Chevrère
(mt.1300), strategica base di partenza per molte escursioni nel Parco, seguendo il sentiero n.6.
Desideravo vedere da vicino questo strano lago, di solito ghiacciato, che si trova dislocato nel margine ovest del Parco, nascosto ed incassato tra il Mont Iverta
(mt.2939) a ovest ed il Mont Envers du Lac Gelé (mt.2918) ad est.
Avevo deciso, in pratica, di effettuare una salita di facile/media difficoltà.
Inoltre, questescursione mi permetteva di transitare nelle vicinanze della parete sud del Mont Avic, che non conoscevo ancora bene, e di visitare unimportante zona
mineraria, ricca di antiche gallerie utilizzate per lestrazione del minerale di magnetite, alcune delle quali con ingressi ancora visibili e cunicoli in parte percorribili.
Le tabelle di marcia, stampate sui depliants del Parco, indicavano un impegno di circa 4 ore e 30 min. per raggiungere il Lac Gelé e di circa 2 ore e 30 min. per ritornare alla base.
Si profilava quindi una bella escursione di circa 7 ore (o forse meno, essendo solo), su un sentiero ben segnalato e quindi effettuabile anche in "solitaria".
Lescursione "effettuata"
Arrivo in zona di buon mattino.
Il tempo non è un granchè, è variabile con piccoli sprazzi di cielo azzurro, fa fresco e non piove: per me è il tempo ideale per camminare.
Me la prendo comoda ed entro nel Museo Naturalistico di Covarey (piccola fraz. di Chevrère prima di quella di Veulla), per una breve visita e per scambiare qualche parola con
la gentile signorina preposta a fornire le informazioni ai visitatori del Parco.
Se capitate qui, non trascurate di fare una sosta in questo Museo: ciò vi consentirà di avere una preventiva visione dinsieme del Parco e di capire le possibilità
offerte per una sua visita; vi permetterà forse di indirizzare meglio la vostra scelta dellitinerario da seguire.
Nei pressi del Museo, sotto unampia tettoia, è possibile dare uno sguardo al plastico dellintero territorio del Parco (in scala 1:5000) ed anche
questo è un valido aiuto per avere una più approfondita visione della morfologia dellintera area.
Colgo loccasione per avvertire la ragazza del Museo sulle mie intenzioni:
<Conto di arrivare fino al Lac Gelé, seguendo il sentiero n.6; farò poi qualche giro nella zona mineraria lì vicino e, forse, raggiungerò il Col de
Kiva>, dico alla ragazza.
<Molto bene, prendo nota> è la sua gentile risposta, <sicuramente ci rivedremo nel pomeriggio, io resto qui al Centro Visitatori del Museo fino alle ore 17,30.
Ora sono quasi le 9 e quindi non ci sono problemi di orario. Buona escursione!>.
Parto così con un passo tranquillo, poco prima delle ore 9, dalla fraz. Veulla della località Chevrère a 1300 mt. di quota, su una bella carrareccia, in parte lastricata,
che inizialmente fiancheggia e supera la piccola, bianca chiesetta del paese ed il suo piccolo campanile (vero "faro" della valle), ben visibile anche da lunga distanza.
Eccomi finalmente in cammino nella natura! Come è bello ritrovarmi di nuovo qui!
Procedo in solitaria, è vero, ma non mi sento solo, sono attorniato da piacevoli e familiari suoni.
Quello degli uccelli è certamente il più vario e complesso, ma si sovrappone bene a quello imponente ed omogeneo delle cascate dacqua che scendono dai versanti della
valle e che si tuffano nei vari torrenti. I ruscelli e le piccole sorgenti, che si incontrano lungo il sentiero, forniscono poi unulteriore tonalità, forse più
gentile ed argentina, al coro complessivo delle voci di questa orchestra naturale...
No!.. Non mi sento per niente solo!... Mi sento invece... finalmente a casa!..
Noto con piacere che nel frattempo, lungo il sentiero del Parco, sono stati sistemati nuovi cartelli indicatori.
Su di loro sono state applicate alcune tabelle esplicative che spiegano non solo le varie direzioni da prendere, ma anche, e soprattutto, le particolarità vegetazionali presenti
nel territorio attraversato o le zone di attività delluomo su queste montagne.
Una prima tabella indica che sto camminando su unantica strada mineraria, unaltra mi segnala che sono vicino ad una zona in cui era stata costruita una
carbonaia su uno spiazzo nel folto del bosco, anchesso preparato dalluomo; la carbonaia, e una volta ce nerano molte nelle varie zone del Parco, era indispensabile
per ricavare il carbone di legna che era utilizzato per la fusione del minerale di ferro, operazione finale che veniva effettuata presso unantica fonderia che esisteva in una
zona bassa del Parco, nella località di Serva.
Le miniere di questa valle erano coltivate già in epoca antica, ma furono ampliate e sviluppate a partire dal XVII secolo.
Pensate a quali e quanti sforzi si sottoponevano quei minatori che lavoravano nelle miniere della zona fino a circa 100 anni fa, per trasportare il carbone ed il minerale a valle per
più di 1400 metri di dislivello, più volte ogni settimana, trainando a mano o con laiuto di qualche animale le pesanti slitte cariche....
Immaginatevi anche di quale tipo di abbigliamento e di calzature disponevano!
Ed il cibo? Certamente era più genuino di quello attuale, ma sicuramente anche più povero in quantità e varietà...
Il sentiero n.6 segue proprio lantico tracciato della strada mineraria, costruita con pietre a secco, a volte sistemate in rilevato per superare zone di pietraie sconnesse su
più livelli, zone paludose oppure per mantenere una pendenza costante rispetto a quella molto discontinua e ripida del terreno circostante.
Poco più avanti un cartello segnala la presenza di alberi di ontano bianco, ed un altro lavvicinarsi di una zona di foresta popolata da pino silvestre.
Queste essenze arbustive, prediligono le zone più soleggiate, calde e più riparate della valle: esse crescono tra i 1200 e i 1700 metri di quota.
Dopo una serie di tornanti ed il superamento di qualche ponte sui torrenti della zona, arrivo ad un primo bivio, allinizio di una piccola area pianeggiante: il solito cartello
indica la possibilità di seguire il sentiero n.7 che conduce verso il Colle di Valmeriana (mt.2281) ed il Mont Barbeston (mt.2483).
Si tratta, in effetti, di un primo ramo di questo percorso che sale nel bosco con tornanti molto ripidi e che è quindi faticoso se affrontato in salita, ma è molto rapido
quando, in discesa, si vuole rientrare velocemente alla base.
Il sentiero n.6 invece attraversa il piccolo pianoro e prosegue diritto, per ora in falso piano, in questa zona della valle che bordeggia la sponda sinistra orografica del torrente
Chalamy (il più importante corso dacqua del Parco).
Raggiungo in breve la fraz. di Magazzino (mt.1461), dove la carrareccia termina in un piccolo piazzale che può ospitare qualche auto (infatti, trovo qui parcheggiati diversi fuoristrada).
In un angolo della radura, ci sono dei piccoli ricoveri e casupole in lamiera che ricordano ancora la funzione di questarea come raduno delle merci e dei materiali della zona.
Da qui partono solo sentieri che sirradiano in molte direzioni.
A sinistra (sud), penetra nel bosco il sentiero n.5 che porta verso la zona dei grandi laghi, a destra (nord) si distacca il secondo ramo del sentiero n.7 (questo sale più dolcemente
fino allalpeggio Pra Oursie (mt.1794) e diritto (ovest) continua il sentiero n.6, che mi conduce verso le miniere del Lac Gelé.
Il mio sentiero sinoltra in una lussureggiante foresta di pino silvestre e lo seguo volentieri con il mio solito passo che non è veloce ma nemmeno troppo lento: cerco
di adeguarlo al mio respiro.
Un nutrito numero di uccelli della foresta mi sta facendo compagnia, sorvolandomi spesso e riempiendo laria di melodiosi canti. Sono ghiandaie e
passeracei diurni che si spostano veloci tra le fronde della fitta vegetazione.
Il sentiero risale la lunga valle, con direzione ovest, mantenendo una pendenza costante: solo qualche sporadico tornante rompe la monotonia di questo lungo traverso.
Sulla sinistra, scorgo il torrente Chalamy che strapiomba nella bassa vallata e, dopo aver ricevuto notevoli apporti dacqua dai molti affluenti dei ripiani superiori, forma belle
cascate e piccole pozze dacqua su vari livelli.
Risalendo la parte alta della valle, passo vicino a pareti rocciose verticali che creano un formidabile bordo al sentiero sulla sua parte destra; da queste, gronda unenorme quantità
dacqua proveniente da miriadi di piccole sorgenti.
Sulla sinistra, sono sempre più visibili enormi bancate rocciose, levigate dallazione di antichi ghiacciai, che si sovrappongono su piani inclinati successivi, che mi accompagnano
per un lungo tratto di cammino, culminando con una piccola cima molto frastagliata: il Bec Espich (mt.2355).
Ormai sono entrato nella fascia più alta della vegetazione e, gradatamente, la foresta di pino uncinato, vera rarità della Valle dAosta, ha occupato il posto
di quella più comune di pino silvestre.
Sembra proprio che il tipo di terreno presente nella parte alta del Parco, povero di "humus" e ricco di componenti acidi e di rocce sedimentarie formate da gneiss e da serpentini, unito
al fatto della quota vegetazionale elevata, tra i 1800 e i 2000 metri, abbia favorito la crescita di questo particolare albero (il pino uncinato), che è riconoscibile dalla corteccia del
tronco di colore grigio-bruno (invece di quello rossiccio della corteccia del pino silvestre), dalla colorazione degli aghi verde cupo (piuttosto che il verde smagliante del pino silvestre) e,
soprattutto, dal tipo delle scaglie della pigna che presentano tipici uncini alla loro sommità e che forniscono il nome a questa rara varietà.
La presenza di pino uncinato in Italia è rara e, oltre a questa del Parco del Monte Avic, risultano alcune popolazioni nella parte centrale delle Alpi lombarde.
Fuori Italia, cè una discreta presenza di foreste di pino uncinato nei Pirenei.
Oltre i 2000 metri di quota, i pini uncinati riescono ancora a resistere alle difficili condizioni ambientali, diventando di piccole dimensioni, come i pini mughi, incurvandosi sul suolo e
divenendo molto più flessibili. Assumendo questa nuova forma, essi resistono meglio alle cadute dei sassi e alle slavine invernali.
Alcuni di questi esemplari mignon di pino uncinato, riescono a raggiungere quote fino ai 2200 metri.
Oltre questa quota, gli alberi lasciano il posto a rare zone di magro pascolo, quasi sempre presenti nelle vicinanze di torrenti o di piccoli laghi, o a zone di torbiera indicanti unantica
presenza lacustre.
Più in alto inizia il mondo delle pietraie e delle rocce verticali.
Salgo gradualmente queste differenti zone, sempre accompagnato dalle voci di uccelli (qui mi trovo nellareale dei gracchi, delle coturnici e delle aquile) e dai fischi delle marmotte, le vere
padrone di queste terre alte.
Riesco a vederne qualcuna che è già grassa e robusta e che presenta un bel mantello color marrone chiaro con venature rossicce, con alcune parti più scure sul dorso.
Qui, esse si mimetizzano bene tra i dossi di terreno, i ciuffi derba e, soprattutto, tra le rocce che sono di colore prevalentemente bruno-rossiccio.
Questo colore, dovuto alla caratteristica ossidazione esterna delle rocce, mi ricorda che sono entrato in un territorio ricco di minerali di ferro e di rame.
Sto risalendo appunto le fasce sommitali della valle e, dopo una serie di tornanti, raggiungo e supero un piccolo valico entrando così in un nuovo e più piccolo valloncello, con fondo in leggera
pendenza, ricolmo di rocce e di sfasciumi.
Sento uno scrosciare dacqua tra le rocce, ma non vedo il torrente che proviene dal Lac Gelé e che porta il suo nome, poichè esso transita sotterraneo in questa zona ed esce più
in basso nella valle formando piccoli risalti.
Mi trovo ormai a circa 2500 metri e sto transitando sotto la parete sud del Mont Avic, che sintravede a tratti sulla destra, e noto i contrafforti settentrionali del Mont Envers du Lac Gelé
che scendono verso di me e che chiudono questarea verso sud.
La particolarità di questa zona consiste nella tipologia del sentiero, su cui sto camminando, che qui è costruito con un manufatto in rilevato di pietre a secco, incastrate le une sulle altre.
Questa è lantica pista per slitte che era utilizzata per il trasporto del minerale di ferro, estratto dalle miniere adiacenti il Lac Gelé.
Questopera è stata costruita con molta cura: le pietre sono state scelte scrupolosamente ed incastrate tra loro con estrema precisione. La pista così costruita ha funzionato
per più di tre secoli, durante i quali notevoli quantità di materiale sono state trasportate a valle con un gran numero di slitte.
Quante immagini mi vengono alla mente, camminando su questo sentiero!
Mi sembra di udire ancora le voci dei minatori e degli addetti ai trasporti, mentre caricano le slitte con il prezioso minerale di magnetite e le convogliano sullo stretto sentiero slittabile con
molta attenzione per non fare deragliare la slitta e perdere il carico! Quali accurate manovre di freno essi devono eseguire per far compiere alle slitte le curve sui tornanti e per mantenere
una velocità moderata nelle lunghe discese?
La fonderia di Serva lavora a ritmo sostenuto e deve essere continuamente alimentata con nuovo materiale per la fusione: allora immagino di vedere le carovane di slitte che portano il minerale a valle,
quelle che, provenendo dalle zone del bosco, convergono sullo stesso sentiero per portare il loro carico di carbone, e quelle vuote che risalgono la valle per effettuare un nuovo carico, fermandosi in
alcuni slarghi per dare la precedenza a quelle cariche in discesa...
Oggi, il sentiero rimane lunico manufatto ancora funzionante che continua a raccontare la storia di queste antiche fatiche...
Con ancora queste immagini nella mente, sono arrivato ormai al bordo superiore del valloncello ed il sentiero raggiunge, con unultima serie di tornanti, uno spiazzo creato artificialmente dagli
uomini della miniera, sorretto (a valle) da un muro alto 3 metri, anchesso costruito con pietre a secco. Si tratta del piano di carico del minerale, situato vicino allingresso
di alcune gallerie: limboccatura di una di queste è ancora visibile proprio nei pressi dello spiazzo.
Essa è posta sul bordo nord del Lac Gelé, e il suo cunicolo dingresso ha le pareti e la volta costruite ovviamente in pietra. Provo ad inoltrarmi allinterno per qualche
decina di metri, ma sono sprovvisto di lampada frontale e quando la caverna si fa scura, ritorno sui miei passi fino alluscita.
Sono arrivato al Lac Gelé (mt.2600), uno specchio dacqua, in parte ancora ghiacciato, a forma di fagiolo, che si trova incassato in una profonda valletta, tra alte pareti di montagne.
Questo bel lago è difficile da vedere da altre parti del Parco e, per ammirarlo da vicino, non resta che seguire uno dei sentieri che lo raggiungono, come il n.6, appunto.
Guardo lorologio e noto che sono le ore 13: ho impiegato circa 4 ore per effettuare la salita, e ho una mezzora danticipo sulla tabella indicativa del Parco.
Scendo vicino alle sponde settentrionali del lago per conoscerlo un po meglio, e capisco perchè è così difficile avvistarlo da altre zone del Parco, essendo così incassato tra il
Mont Envers du Lac Gelé ed il Mont Iverta. Questultimo monte corrisponde ad uno dei vertici di confine del Parco stesso.
Dopo un po, risalgo il dosso delle miniere e sulla sua sommità scorgo un numero notevole di ruderi di antiche costruzioni, forse proprio quelle che ospitavano i minatori ai tempi
dellattività mineraria. Non molto distante da questi, sorge una nuova costruzione (del 1989) adibita a rifugio delle Guardie Forestali (Guardia Parco).
Fa freddo, il cielo è divenuto grigio scuro ed inizia a scendere qualche fiocco di neve.
Non ho ancora fame, non sono stanco e preferisco camminare ancora.
Sul bordo nord del lago, su un piccolo dosso, un cartello indicatore segnala la direzione seguita dal sentiero n.6, che qui svolta a sinistra, prosegue verso sud, raggiunge il Col Medzove (mt.2612)
e quindi la zona dei grandi laghi del Parco (Grand Lac, Lac Cornu, Lac Noir, Lac Blanc, ecc..). Un altro cartello indica la direzione di nord-ovest per la salita al Col de Kiva (o Col de Raye
Chevrère, mt.2703) lungo il sentiero n.6A, con un tempo di percorrenza di soli 30 minuti.
Seguo questultima direzione, come già programmato, e minoltro su un sentiero che presto diventa unenorme pietraia. Mi faccio strada tra questi blocchi di rocce grazie ad
alcuni ometti segnaletici e, poco a poco, effettuo un percorso a semicerchio verso destra, mantenendo praticamente la stessa quota, contornando la testata di vari valloni ed avvicinandomi alla
parete sud del Mont Avic e alla sua lunga cresta ovest che termina quasi allaltezza del colle verso il quale sto dirigendomi. Superata la zona delle pietraie, piego verso sinistra e,
su tracce di sentiero che mimpongono nuovi tornanti, mi dirigo al colle salendo un pendio prativo, tra un piccolo rilievo di rocce rotte sulla destra e gli alti contrafforti settentrionali
del Mont Iverta che sostengono il colle sulla sinistra.
Improvvisamente, uno strano pigolìo, proveniente proprio dalla sinistra, attira la mia attenzione.
Subito non noto nulla ma, facendo attenzione ai più piccoli movimenti, noto due grossi esemplari di pernici bianche, dello stesso colore delle rocce (bruno-grigio con qualche chiazza bianca),
che risalgono la china tenendosi nascosti tra rocce e prato. Mi fermo e cerco di fare il minor rumore possibile, tiro fuori la macchina fotografica e scatto qualche foto ma non sono
sicuro che riuscirò ad avere belle immagini di questi elusivi e rari uccelli di montagna, per via della distanza e per il loro straordinario mimetismo con lambiente circostante.
Con ulteriori pochi passi su questo pendio, raggiungo il Col de Kiva. Cè un po di foschia, ma riesco a vedere ugualmente un vasto panorama verso la Val Clavalité, lunghissimo
e selvaggio vallone che si raccorda alla valle centrale della Dora Baltea, nei pressi di Fénis.
Questo valico da cui mi affaccio non è l'unico nella zona.
Superando o contornando il rilievo di rocce rotte su piccole tracce verso destra (nord), raggiungo un nuovo valico di poco più alto del primo, che si affaccia sempre sulla Val Clavalité e
che si trova spostato più vicino alla cresta ovest del Mont Avic. Con quello precedente, esso rappresenta una parte della linea di confine ovest del Parco.
Da questo valico superiore del Col de Kiva, guardando verso est, davanti a me, si apre un valloncello prativo, ricco di torbiere e di piccoli laghi, che si allunga proprio sotto la cresta ovest e
la parete sud del Mont Avic.
Questa bellissima montagna che, vista dalla valle centrale della Dora Baltea allaltezza della statale n.26 oppure da Champdepraz (comune che comprende il territorio del Parco),
appare come una piramide altissima, slanciata e con la parte sommitale leggermente curva verso sinistra (sud), da questo versante appare invece più tozza e con la sagoma meno elegante.
Sono le ore 13 e 40 min. e decido di avvicinarmi al monte.
Scendo dal colle e risalgo il valloncello sospeso avvicinandomi ad un primo laghetto. Tutta la zona è praticamente una torbiera ed il terreno erboso è soffice e spugnoso.
Man mano che avanzo, la morfologia di questa zona si fa più chiara: un enorme conoide di sfasciumi, provocato dal crollo di una notevole porzione della cresta ovest del Mont Avic, blocca il
valloncello e lo separa dagli alti strapiombi che precipitano dalla parete sud del monte verso la sottostante valle del torrente del Lac Gelé che ho appena risalito.
Mi dirigo verso il conoide di sfasciumi, transitando vicino a piccoli specchi dacqua e, improvvisamente, mi blocco vedendo davanti a me un bellissimo esemplare di stambecco. Anche lui
mi ha notato... Faccio una prima foto allanimale che è fermo in mezzo alla valle, vicino ad una piccola pozza dacqua, mentre mi guarda tranquillo da una distanza di circa 80 metri.
Mi avvicino un po e allora lo stambecco, con molta calma, si sposta verso sinistra e risale le balze del monte. Guardo in quella direzione e finalmente vedo il resto del branco: altri
7 esemplari che brucano pigramente a mezza costa tra roccette e prato. Lesemplare a me più vicino, evidentemente il capo-branco, raggiunge i suoi simili e li conduce in una zona più
alta e più distante dallitinerario da me seguito. Poi, tutti si fermano e mi guardano transitare.
E un bel gruppo di animali, relativamente giovani (noto, infatti, il numero limitato di nodi sulle loro corna) e mi sembra strano di trovarne tanti insieme e tutti in una stessa zona.
Al Museo mi era stato detto che nel Parco vivono circa 200 camosci ma pochi esemplari di stambecco, tutti provenienti dalle zone del Parco Nazionale del Gran Paradiso.
Che siano tutti radunati qua?!
Seguìto da molti occhi, inizio a salire il conoide di sfasciumi che mi porta in direzione della breccia sulla cresta ovest del Mont Avic.
La salita è ripida, faticosa e richiede molta attenzione nello scegliere litinerario giusto, poichè, man mano che si guadagna quota, questo sfasciume presenta alcuni lati scoscesi e
sempre più strapiombanti.
Fortunatamente, tra le rocce si notano alcuni ometti segnaletici in pietra e rare tracce di sentiero.
Solo nellultima parte, il sentierino diventa più evidente e permette di raggiungere la sella sulla cresta ovest, dopo numerose svolte e tornantini.
La breccia sulla cresta e le sue zone adiacenti non sono per niente luoghi "accoglienti": questi dirupi sono composti da rocce rotte di colore bruno-rossiccio scuro, che si sovrappongono
in un equilibrio instabile.
Vedo spesso cadere sassi su questo versante della montagna e sento provenire sordi rumori e scricchiolii anche dallaltro lato.
Il sentiero finisce definitivamente su questa sella, a circa 2900 metri di quota. Mi affaccio un attimo e riesco a vedere il panorama sul lato nord, abbastanza esteso ma chiuso dal Mont Revi
(mt.2923) e dal Col Varotta (mt.2591) aldilà di unaltra vasta zona di pietraie dal colore rossiccio.
Inizio ad arrampicare lungo la cresta ovest facendo molta attenzione alle rocce instabili ed al "brecciolino" che ricopre gli appigli ed i punti dappoggio dei
piedi: scivolare qui significherebbe avere la certezza di fare un bel volo di circa 300-400 metri sul lato sud o su quello nord del monte.
Il panorama è stupendo ma sono concentrato sulla salita e la mia attenzione è assorbita dalla sequenza dei passi da fare e dagli spostamenti necessari su un versante e sullaltro;
riesco a scattare solo poche foto di queste zone.
La mia progressione è lenta poichè sono solo e privo di ogni attrezzatura da roccia. Larrampicata non è difficile ma lutilizzo di un casco e di uno spezzone di corda di almeno 10 mt. di lunghezza, sarebbe stato di valido aiuto.
Le ore scorrono veloci e le condizioni atmosferiche si mantengono sul brutto, fa freddo e continuano a cadere fiocchi di neve.
Supero a fatica un ultimo risalto roccioso, sormontato da un cartello indicatore del limite del Parco (chi mai è andato a fissarlo proprio lì?!), e sono in vista della vetta.
Con un breve percorso di cresta, prima in discesa e poi in salita, raggiungo finalmente la cima principale del Mont Avic (mt.3006), sulla quale è presente un palo (forse per il fulmine?) e una
piccola statua della Madonna.
Sono le ore 15 e 10 minuti circa e finora ho camminato, quasi continuamente, per più di 6 ore.
Sono soddisfatto di come ho proceduto finora.... Ora la parte più difficile è superata e vorrei restare in vetta il più a lungo possibile, per ammirare questo eccezionale panorama a 360°.
Se non ci fossero nuvole basse, potrei riconoscere benissimo tutte le cime del Parco e quelle più importanti della Valle dAosta, anche molto distanti da questa zona.
Il tempo è sempre sul brutto e sto pensando alla discesa.
Conosco bene la situazione delle rocce del versante nord (per esserci già salito e sceso altre volte) e sono preoccupato per la presenza di nevischio: se la situazione peggiorasse o se, addirittura,
iniziasse a piovere, allora diventerebbe complicata la discesa anche su questo lato del monte.
Dopo un brevissima sosta in vetta, decido quindi di scendere dal monte lungo la sua cresta est e poi per il suo versante nord. In queste condizioni atmosferiche (e di orario), non me la sento di
arrampicare in discesa sulla cresta ovest appena salita, sarebbe tra laltro troppo rischioso.
Mi dirigo allora verso la cresta est che scende verticale verso unanticima daltezza leggermente inferiore (che non si nota quando si guarda il profilo della montagna dal fondovalle) e faccio
molta attenzione ai sassi mobili, abbondanti anche qui.
Nella depressione tra le due cime ci sono ripiani con rocce montonate che si possono scendere seguendo una specie di scalinata naturale. Perdo quota, poco a poco, sfruttando questi passaggi e cercando
di guardare più in basso possibile per capire se sto seguendo il percorso giusto oppure se sto dirigendomi verso uno strapiombo, che mi bloccherebbe il passaggio. Con molta pazienza e prudenza
riesco a scendere da un ripiano allaltro ed a raggiungere la base della vetta sul versante nord, mettendo piede su una gigantesca pietraia che ha una pendenza minore.
Sul bordo destro di questa pietraia (verso est), non molto distante dagli strapiombi di questo lato della montagna, ritrovo tracce di sentiero e ometti segnaletici in pietra, che mi permettono di tenere
la direzione e di attraversare questo enorme ammasso di rocce, facendomi perdere ulteriore quota e permettendomi laccesso in un altro più piccolo vallone sassoso.
Scendo quindi in questo nuovo vallone, tenendomi il più possibile sulla destra, vicino cioè al filo di cresta del monte che va a formare, più in basso, una piccola crestina formata da roccia
e sfasciumi, che racchiude tutta questa zona sul lato destro. Proprio al centro di questa crestina, noto la presenza di una piccola sella, poco visibile, raggiunta da tracce di sentiero che risalgono lo
sfasciume presente sul lato che sto scendendo.
Dallaltro lato della crestina che forma una dorsale, più in basso e a destra - verso sud-est, riesco a scorgere, a tratti, la mia prossima meta: si tratta di una piccola conca prativa
che contiene due laghetti; essa si trova proprio sotto la verticale parete est dellanticima del Mont Avic, ed è verso questarea che cerco di indirizzare la discesa.
Scendo con circospezione tra un sasso ed un altro, facendo allenamento di equilibrismo, cambiando spesso il percorso e continuando a perdere quota.
Cerco sempre di tenermi sulla destra evitando però gli enormi salti presenti su questo lato, formati da scuri lastroni verticali (di pietre verdi?).
Finalmente, dopo un ultimo traverso nella pietraia, mi trovo proprio sotto la piccola sella, al centro della dorsale rocciosa vista dallalto.
Seguo le evidenti tracce di sentiero, di colore rossiccio, che risalgono lo sfasciume che ha un uniforme colore più scuro (sembra un grigio scuro della stessa tonalità di quello delle lastre di ardesia:
lose nel dialetto locale).
Dopo alcune decine di metri di salita, tra detriti sempre più fini, raggiungo la selletta.
Una veloce discesa su uno sdrucciolevole scivolo (non si può proprio chiamare sentierino) mi consente di raggiungere la conca, nella zona prativa che separa i due laghetti.
E fatta! Sono fuori dei pericoli ormai!...
Posso fermarmi un attimo e prendere fiato.
Guardo in alto, seguo con calma tutta la linea di discesa seguita e mi rendo conto che, in alcuni punti, sono transitato molto vicino a notevoli strapiombi.
Questa è la mia variante di discesa! Non so se altre persone la conoscano o labbiano già percorsa esattamente come ho fatto io!
Lalternativa a questo mio itinerario di discesa, sarebbe stata quella di seguire il percorso "standard" della cresta nord del Mont Avic, che collega questo monte al Col Varotta, e poi scendere a valle lungo
il sentiero 7; ma in questo caso avrei dovuto fare un giro molto lungo e più pericoloso, dovendo attraversare lintera enorme pietraia fino al colle.
Litinerario "standard" sarebbe costato circa 1 ora in più di cammino rispetto al mio.
Inoltre, vicino al Col Varotta, ci sono altri scoscendimenti rocciosi difficili e pericolosi da superare, che suggeriscono di non seguire il filo della cresta nord, ma di tenersi più allinterno nella pietraia.
Naturalmente, camminando più a lungo in una pietraia, aumentano i rischi di cadute con relative contusioni alle gambe., alla schiena, ecc.
Ecco perchè, quando mi trovo su questo lato della montagna, preferisco seguire mie varianti personali del percorso!
Riprendo il cammino finalmente su prato, e mi dirigo verso sinistra (est) per raggiungere il bordo della conca. Supero il bordo del lago più orientale, fino a raggiungere un nuovo risalto verso valle.
In basso, sempre verso est, noto un altro valloncello contenente un piccolo lago, sulla sponda nord del quale si notano tracce di sentiero.
Quella è la mia nuova meta!
Sulla parte centrale del bordo della conca dove mi trovo, ci sono altre tracce di sentiero che mi permettono di scendere, gradualmente, il nuovo gradino della montagna, però in una zona prativa ricca di rododendri
in fiore.
Sento nuovamente, e con grande piacere, gli assordanti fischi delle marmotte che si affacciano su qualche roccione a guardarmi e poi scappano veloci nelle tane (sono così veloci che non sono riuscito a fotografarne
nemmeno una delle cinque avvistate durante lintera giornata escursionistica).
Dopo tante pietraie, è veramente piacevole e rilassante seguire questo sentiero che si snoda tra praterie e torbiere.
Il territorio che sto attraversando ora è popolato di rododendri e di molti altri fiori colorati, che emergono da uno spesso e soffice strato di erba verde brillante.
Finalmente raggiungo la valletta con il piccolo lago e transito lungo il suo lato nord fino a raggiungere il bordo verso valle di questo nuovo pianoro.
Sulla mia sinistra, sotto i contrafforti rocciosi che collegano il Mont Revi al Mont Barbeston e che rappresentano il confine nord del Parco ma anche il bordo settentrionale di un vero contenitore naturale di tutta questa
zona, noto che i vari valloni pietrosi della parte alta sono confluiti in un unico vallone ricco di praterie che è solcato dal sentiero n.7.
Questultimo è ben evidente in mezzo alla valle e si trova ad un centinaio
di metri più in basso, rispetto al ripiano dove mi trovo.
Dal bordo di questo ripiano, scende un piccolo sentiero, ben tracciato, che percorre molti tornanti su quest'ultimo risalto e raggiunge, sulla sinistra in un prato pianeggiante, il sentiero n. 7.
Mentre minoltro su questo sentiero ed attraverso una folta e colorata zona di rododendri, scopro unaltra delle sorprese che il Parco mi ha riservato in questa escursione: due giovani camosci, col mantello
marroncino chiaro, scattano a pochi metri da me. Sono apparsi sul bordo del ripiano, scendono in corsa (da sinistra verso destra), e penetrano velocemente in un altro vallone sulla destra, dileguandosi rapidamente dalla
mia vista.
Raggiungo finalmente il sentiero n.7 attorno ai 2100 metri di quota.
A questa quota comincia ad intensificarsi la presenza dei pini "mughi", che qui sono rappresentati dalla forma "prostrata" del pino uncinato.
Sono contento e provo un grande piacere nel poter camminare di nuovo su un bel sentiero! E poi in discesa!
Esso non ha niente a che vedere con gli sfasciumi e i dirupi che ho attraversato prima.
In questa zona, il sentiero perde quota dolcemente ed è veramente rilassante seguirlo, specie quando si è un pò stanchi!
Io, in effetti, comincio ad avvertire qualche doloretto alle articolazioni ma la camminata è ancora lunga ed il dislivello da superare è ancora notevole.
Gradatamente, penetro sempre di più nel folto della foresta di alte conifere e ciò contribuisce a mantenere una buona ombreggiatura sul percorso, anche se oggi non serve, poichè per tutta la giornata il cielo
si è mantenuto prevalentemente coperto. Fortunatamente non è piovuto ed è anche cessato di cadere il nevischio che mi aveva preoccupato durante lattraversamento delle balze più alte.
Scendo sempre di più nella foresta e, dopo una lunga traversata, raggiungo la fraz. Pra Oursie a mt. 1794 di quota, composta da case rurali e da ricoveri per animali, adagiati su un bel poggio prativo, libero di alberi
e con una vista stupenda sulle valli del Parco. Qui trovo una persona che sta accudendo ai tradizionali lavori nellalpeggio e mi fermo un attimo per scambiare due chiacchiere e per bere un pò dacqua fresca alla
fontana presente nel cortile davanti alla casa rurale.
Questo alpeggio rappresenta un punto importante per linterconnessione dei vari sentieri di questa zona.
Nei pressi dellalpeggio un cartello indicatore segnala la direzione per scendere alla località Magazzino (mt.1461), lungo il secondo ramo del sentiero n.7 e raggiungere la zona dove arriva la carrareccia da Veulla
ed inizia il vero sentiero n.6.
Dallalto, riesco ad intravedere alcuni tetti delle casupole presenti in quel luogo.
Poco oltre lalpeggio, a circa 150 metri verso est, cè un altro bivio che permette la salita al Col di Valmeriana e al Mont Barbeston, lungo il sentiero 7B. La prosecuzione di questo sentiero verso valle (piegando a
destra, verso sud-est) è il primo ramo del sentiero n.7 che porta direttamente, ma ripidamente, nei pressi della base di partenza.
Potrei scendere alla fraz. Magazzino sul sentiero più dolce che parte vicino allalpeggio, ma questa scelta mi obbligherebbe poi a fare un più lungo percorso a ritroso, una volta raggiunta la frazione a valle, per
ritornare a Veulla.
Salutata la persona dellalpeggio, decido quindi di scendere per il sentiero n.7, più ripido ma più veloce, sperando nella tenuta delle gambe e dei piedi. Mi inoltro nuovamente in una fitta foresta (questa volta
popolata da pino silvestre) ed inizio a perdere velocemente quota seguendo moltissimi ripidi tornanti.
Man mano che scendo, aumenta il numero di cartelli indicatori del Parco che segnalano le particolarità di questa zona: ne incontro uno che spiega i nomi di alcune piantine tipiche che crescono a ridosso di un muretto a secco,
più avanti ne vedo un altro che indica una nuova area adibita a carbonaia, ecc..
Con una ripida discesa a mozzafiato, che mette a dura prova la resistenza delle gambe e delle ginocchia, raggiungo finalmente il ripiano della valle del torrente Chalamy ed il bivio con lampia carrareccia che giunge dalla
fraz. Magazzino e dal sentiero n.6.
Ho chiuso così il grande anello di questa lunga escursione e non mi resta che rientrare a Veulla, e poi a Covarey dove ho parcheggiato l'auto.
Con pochi passi sono sulla bella carrareccia mineraria, svolto a sinistra (verso est), nuovamente la seguo volentieri ritrovando i ponticelli e la parte con fondo lastricato e, in pochi minuti, supero le varie frazioni della
località di Chevrère, fino a raggiungere quella di Covarey, dove mi fermo.
Mi accorgo che il Museo è ormai chiuso.
Sono le ore 18 e 30 minuti, e sono arrivato solamente unora dopo il suo orario di chiusura.
Naturalmente sono saltati gli orari previsti inizialmente e lappuntamento con la signorina del Museo, ma sono contento lo stesso per essere riuscito a compiere questa bella escursione, ben più ampia e complessa di
quella programmata.
Mi dirigo verso un lavatoio, sistemato poco più avanti del bar sullangolo del piazzale e vedo che la gente, seduta ai tavolini, mi sta guardando con strani sguardi...
<Bah!, sarà che sono sporco, sudato e che forse puzzo un po?!> penso io, mentre mi avvicino al lavatoio, mi tolgo lo zaino e gli indumenti bagnati dal sudore ed inizio il lavaggio delle braccia e del
torso con lacqua gelida.
<Oppure, avrò avuto una faccia scurita e stravolta dalla fatica!> penso mentre, tolte le calze ed eliminati i cerotti dalle dita dei piedi e dai calcagni, tuffo gambe e piedi sotto il getto dacqua che
esce dallo stesso lavatoio, e li strofino bene per effettuare un forte massaggio ed assicurare un meritato refrigerio ai veri protagonisti di questa avventura.
Poi, mi rivesto con indumenti asciutti, sistemo il materiale nellauto e finalmente entro nel bar per bere la sospirata birra ghiacciata.
Solo allora mi accorgo di sorridere mentre cerco una ragione <...sta a vedere che queste persone, nelle condizioni in cui mi hanno visto arrivare con i due bastoni ed i pantaloni alla zuava, mi hanno scambiato
per un pastore disceso a valle!> e mi sembra sensata se penso alla situazione simile in cui mi ero trovato poco prima <...forse mi hanno scambiato proprio per un pastore, così come ha fatto quel numeroso
gruppo di capre che mi ha inseguito, da Pra Oursie verso valle, per un paio di chilometri, e con tanto di orchestra di campanacci al seguito!>.
E, infatti, così pareva, poichè dopo aver gridato più volte nella loro direzione <Scio scio, andate via, tornate indietro a casa vostra>, sono riuscito a scrollarmele di dosso
solo con una precipitosa fuga e con qualche trucco escogitato al momento per nascondermi alla loro vista.
Ma quel sorriso strano stampato sulla mia faccia, e non rivolto ad una persona in particolare, non avrà forse convinto ancora di più gli avventori del bar nella loro primitiva idea? <Sì!, Questo qui è
proprio un pastore, un po deficiente però!>.
Questa è stata lultima delle sorprese che il Parco del Mont Avic ha voluto riservarmi questanno, durante questo nostro periodico incontro.
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